Mi è sembrato giusto , a distanza di tempo , dare anche il mio contributo, contributo che ora è stato sedimentato dal tempo, anche se sto ancora pensando, anche se ancora non sono riuscita ad elaborare del tutto il mio vissuto africano; ancora non so cosa dire ..
Certo non sono partita per salvare l’Africa ed era la prima volta che ero in Africa.
Sono una pediatra, una neonatologa, so fare solo questo : curare i bambini appena nati; sapevo che i problemi maggiori, più cogenti, dell’Africa, erano e sono quelli delle madri e dei bambini, quelli della mortalità materna e infantile ; quindi sono partita convinta di poter fare qualcosa, di poter essere utile.
La mia esperienza si è svolta a Pemba, un’ isola di fronte a Zanzibar (in Tanzania), un’isola bellissima con spiagge bianchissime , mare stupendo, un’isola verde verde, lussureggiante, con tante palme, tanta frutta, tante banane, tanto pesce e tanti bambini …
I bambini… quanti bambini, belli, simpatici ma soprattutto tanti …
I bambini ..i bambini che muoiono; sono abituata alla morte dei bambini ma non dei bambini grandi, dei bambini sani; sono abituata alla morte di bambini che ho potuto curare fino alla fine ; in Africa no, non potevo curarli, non sapevo come fare, non conoscevo le malattie, non sapevo e non potevo fare il medico, per lo meno il medico come sapevo farlo e ho fatto per molti anni.
Certo capisco che è stato fatto tanto, che adesso ci sono le vaccinazioni, i latti per i bambini denutriti ed altri aiuti, ma l’ impatto emotivo è stato comunque molto difficile.
Il problema probabilmente è derivato anche dal fatto che non avevo un ruolo ben definito nel progetto per il quale era stato organizzato il viaggio (insegnare l’ecografia a dei medical officers africani)
Io però non so molto di ecografia …e ormai sono troppo vecchia per imparare o meglio forse non per imparare, ma… imparare per insegnare è diverso
La sala parto e il dipartimento materno dove stavano alloggiate le madri con i bambini dopo il parto mi ha molto impressionato, anzi sconvolto, per la parte logistica (pioveva sopra i letti) , e per la quasi totale mancanza di igiene e pulizia; non parlo di sterilità , solo di pulizia, di acqua e sapone, di asciugamani…
Le donne partorivano da sole nel dolore e nella scarsa solidarietà e vicinanza di altre donne, in mezzo al sangue, i bambini non ricevevano attenzione, nessuno se ne occupava, per lo meno questa è stata la mia impressione. In Africa, per lo meno nell’Ospedale di Chake-Chake, mancano le cose di base e l’acqua è una di queste (ma nel contempo è un posto dove piove molto, praticamente tutti i giorni nel periodo del mio viaggio).
Imparare l’ecografia è importante, è un buon mezzo, ma se non puoi fare un esame del sangue (glicemia, emocromo , elettroliti, esame del liquor… ) che tipo di medicina puoi fare, come puoi diminuire il numero di sepsi che sono una delle prime cause di morti delle madri se non puoi insegnare o dare l’esempio di lavarsi le mani ?
Ci sono state inoltre molte difficoltà di comunicazione con le ostetriche (molte sapevano solo poche parole di inglese, ma anche da noi quanti operatori sanitari parlano inglese? io stessa lo parlo male).
Probabilmente il tempo è stato poco per migliorare la mia conoscenza dei problemi.
Ho fatto quello che ho potuto; i presidi richiesti per migliorare la situazione non sarebbero costosi, ma senza quelli le cose non miglioreranno; anche la conoscenza dei presidi in dotazione era scarsa ; c’era un Infant Warmer (un apparecchio per mantenere caldo il neonato), donato dal Canada, che dapprima non funzionava, ma il problema era l’elettricità (non funzionavano le spine elettriche della sala parto), ma anche in seguito ho cercato di spiegare il funzionamento a tante persone ma non veniva messo in funzione; forse perchè non riuscivo a spiegare il funzionamento in una lingua comprensibile, ma anche perchè non era chiara l’importanza di esso in sala parto, soprattutto se devi aiutare un neonato prematuro o un neonato asfissiato.
Mi sono poi recata negli ambulatori periferici: venivano visitati molti bambini con patologie anche contagiose (scabbia, impetigine, infezioni da funghi, gastroenteriti, polmoniti, infezioni respiratorie) e non c’era acqua per lavarsi le mani ; certo erano posti importanti perchè erano disponibili farmaci gratis, ma anche qui credo che avere l’acqua per lavarsi le mani, un lettino per visitare i bambini meglio e non in braccio alle mamme, anche quelli grandi, avrebbe fatto o farebbe la differenza
Il dipartimento pediatrico ha lasciato in me una ferita aperta, per le patologie che ho visto, per la numerosità anche delle patologie neurologiche, per la situazione logistica dei bambini, per gli stati di denutrizione …
Adesso a Pemba c’è un progetto di creare un nuovo punto nascita , in un distretto lontano dall’Ospedale , accanto ai piccoli villaggi di campagna, è una cosa buona, ma ci devono essere degli standard di pulizia e di assistenza e la presenza costante e continuativa di qualcuno che dia un imprinting educativo che poi possa essere mantenuto nel tempo, perchè è diventato parte della cultura acquisita
Ho cercato di essere una voce sconosciuta e fraterna che provava a offrire, goffamente, solidarietà ma ho provato in modo molto forte l’insufficienza , l’impotenza di ogni uomo nel condividere davvero una sofferenza che comunque non è la sua ; davvero non c’è altra risorsa che amare ed essere ostinati; spero di essere contagiata da questa malattia dell’ostinazione che mette in moto anche i rassegnati e i vigliacchi e li convince li rende migliori delle loro parole.
L’esperienza da me fatta a Pemba, ospite della fondazione Ivo de Carneri, è stata complessa ; mi sono disperata, mi sono arrabbiata , ho pianto, ho cercato di fare quello che potevo e pensavo alle parole di Cristo: quello che fate per questi piccoli lo fate a me, è stato poco, ho potuto fare poco, vorrei fare di più, non voglio arrendermi , ho fatto quello che potevo; ci sono stati molti ostacoli; l’Africa è un interminabile sconfitta, ma questo non deve essere il motivo per smettere di lottare; dobbiamo non fuggire dall’inaccettabile, ma rimanere nell’inaccettabile, saltarci dentro; dovrebbe esserci sempre uno spazio per fare una scelta. Io spero di si; ho capito che devo studiare, che devo prepararmi , che bisogna avere un progetto, che non avevo e d’altronde non potevo avere essendo la prima volta che mi recavo in Africa .
Non poter parlare la lingua , per me che parlo tanto e che curo anche con le parole è stato terribile, difficile, angosciante ; ogni sera studiavo lo Swaili in internet.
Non so se quello che ho scritto sia interessante: ho scritto di getto, le parole del cuore
Ringrazio comunque la fondazione Ivo De Carneri per avermi permesso di fare quest’esperienza che per me ha avuto un grande valore , che credo crescerà nel tempo .
Al momento sto finendo di frequentare presso il CUAMM (medici con l’Africa ) a Padova un Corso di formazione e le mie idee sono più chiare su quello che si può provare a fare…. lavorare con l’Africa , su progetti limitati , a piccoli passi
Dr.ssa Augusta Janes