Riprendo il discorso sui neonati e sulle mamme, raccontando ancora un poco la mia esperienza africana di un mese trascorso nell’ospedale di Tosamaganga, in Tanzania.
Le mamme vivono la gravidanza senza gli appuntamenti di controllo che la scandiscono nel mondo occidentale; sono comunque disponibili gli Health Centre (centri di salute) sparsi nei villaggi, che offrono servizi preventivi, come le vaccinazioni e le visite prenatali, e servizi curativi, quali la terapia per l’HIV e per le malattie più comuni.
In queste strutture è possibile l’assistenza al parto vaginale in gestazione a termine; se sono previste complicanze viene consigliato di recarsi in ospedale, benché la quota di incertezza legata al travaglio e al parto non sia, come sappiamo, prevedibile in anticipo.
Raggiungere l’ospedale non è una cosa facile, perché i villaggi sono sparsi in un territorio molto vasto, come è il distretto di Iringa; i mezzi di trasporto pubblici (le macchine private sono rare) sono i DALADALA, piccoli pulmini che partono non ad orario ma quando sono strapieni, cioè con almeno il triplo di persone previste dai posti a sedere.
Oltre al pulmino che staziona sempre fuori dall’ospedale a bordo strada c’è sempre qualche moto (PIKI PIKI) che fa servizio taxi, trasportando due o tre persone: per noi rappresentano entrambi sistemi di trasporto disagevoli, anche per la promiscuità poco salutare a cui si è costretti, in compagnia di malati che arrivano o sono appena stati dimessi.
Questi servizi vengono usati anche dalle mamme con i loro neonati, che in alternativa percorrono lunghe distanze a piedi; i bimbi in braccio oppure, appena più grandini, portati sulla schiena avvolti in grandi fasce colorate.
Comunque a Tosamaganga c’è la disponibilità di una stanza di circa venti letti, come una specie di ostello (WANYAFILO), che ospita le donne nell’ultimo periodo della gravidanza, in vicinanza dell’ospedale, per una accessibilità più veloce al momento del parto.
Le donne nel wanyafilo aspettano anche settimane: non sono ricoverate, ma la prossimità garantisce una tutela altrimenti impossibile.
Si fanno da mangiare da sole in focolari di mattoni, fanno il bucato, stanno sedute insieme su delle lunghe panche, in un sottoportico esterno, chiacchierano tra loro e ricevono le visite di familiari e amiche.
Attualmente la percentuale di donne che partorisce negli ospedali si è molto accresciuta (nella regione ce ne sono due, a Tosamaganga e a Iringa, città capoluogo, in cui c’è anche una clinica privata), ma la mortalità materna è ancora molto elevata; in generale nell’Africa Subsahariana la mortalità materna è pari a 500 decessi ogni 100.000 parti, in confronto a 12 decessi nei paesi industrializzati.
Considerato poi il tasso di fertilità che in Tanzania è di 5,4%, il rischio di mortalità di una partoriente è di 1:39, mentre in Italia è di 1:4.700, poiché il tasso di fertilità è di appena 1,34%.
L’età della madre alla prima gravidanza è verso i 17-18 anni, e via via si arriva a 36 anni con oltre 6-7 gravidanze.
La mortalità infantile è pure elevata, del 43 per 1000, (in Italia è meno del 4 per 1000), comunque in calo costante nell’ultimo decennio.
Le principali malattie sono la malaria, la tubercolosi, l’infezione da HIV, oltre ad altre infezioni meno frequenti ma comunque comuni.
L’incidenza della positività per HIV nella popolazione è molto alta, del 9%; sono oltre un milione attualmente in Tanzania i minori orfani di genitori deceduti per AIDS; è una malattia sentita ancora oggi come discriminante, per cui talora può verificarsi che la madre non denunci il suo stato infettivo, esponendo quindi il neonato alla malattia per mancata profilassi.
Un’altra importante causa di malattia e morte è la malnutrizione, che colpisce i bambini più fragili, cioè quelli nati prematuri o sottopeso; le gravidanze ravvicinate inoltre hanno come conseguenza la sospensione dell’allattamento al seno, perché secondo la loro tradizione il latte cambia caratteristiche e può essere pericoloso.
Il piccolo quindi viene svezzato precocemente, oppure viene nutrito direttamente con latte di mucca, diventando un soggetto a rischio di intolleranze o infezioni.
La malnutrizione che ne consegue (detta SEDE), viene aggravata dalle tradizioni locali che tendono a dare una scarsa importanza ai bambini più piccoli, che occupano il gradino più basso nelle scale delle priorità; l’usanza poi di mangiare da un unico piatto rende ancora più difficile una distribuzione equa del cibo (i più veloci prendono tutto).
Ciononostante la sterilità è un problema molto importante per molte culture africane, e viene esclusivamente addebitata ad un problema femminile: la donna sterile viene emarginata, i figli sono importanti perché garantiscono la continuità del clan.
In connessione con questo problema si spiega l’usanza di fare molta attenzione che alla nascita il cordone ombelicale, una volta secco, non cada tra le gambe della neonata, perché questo può portare come conseguenza alla sterilità.
Spesso il figlio più desiderato è un maschio, proprio per la prevalenza di società ad impronta patriarcale, ma nelle famiglie più povere una femmina è più desiderabile, perché garantisce un ricavo economico al momento del matrimonio; infatti è usanza pagare un prezzo, in mucche o danari, alla famiglia della sposa.
Si ritiene inoltre che la placenta conservi un legame con il bambino a cui era collegata: una tradizione ancora in uso, per chi nasce fuori dall’ospedale, è quella di seppellire la placenta in un luogo lontano e molto in profondità, in modo da non essere ritrovata, né da uomini né animali.
In questo modo non si può agire su di essa per fare del male alla persona a cui era legata.
In conclusione le tradizioni, le credenze ma anche la povertà in Tanzania rendono la gravidanza e il parto molto diversi da come sono vissuti da noi.
Valeria Chiandotto